Lo stress degli inseguitori..
Sortisce pareri discordanti l’avvento della Circolare 23692/10 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sulla valutazione dello Stress lavoro-correlato in attuazione del Testo Unico sulla Salute e la Sicurezza nel Lavoro: da un lato vi è chi reputa le nuove disposizioni – orientate alla necessità di determinare e correggere le eventuali fonti di usura psichica nelle organizzazioni – un grande smacco per coloro che vivono il dramma del precariato, dall’altro vi e chi reputa questo un disincentivo (ulteriore..) all’assunzione di personale. Vi è chi, infine, si dichiara abbastanza scettico sulla volontà di materiale applicazione di tali, indisicutibilmente sacrosante, ordinanze. Non si può non essere d’accordo con tutti questi punti di vista, sui quali merita però fare alcune considerazioni..
Innanzitutto va detto, specie a chi ritiene che le «priorità siano altre..», che questa attenzione per i fattori di rischio psicosociale non è certamente figlia di un “errore” – di condiscendenza, tenuto conto del resto della sua produzione.. – di Sacconi, bensì probabilmente il frutto di una moral suasion comunitaria che sin dalla Sentenza del 15/11/2001 (causa c-49/00) ha censurato l’inerzia italiana nel comprendere tutte, ma proprio tutte, le possibili fonti di rischio per la salute e la sicurezza sul posto di lavoro. Preferisco non indagare se questa quasi decennale inadeguatezza non abbia comportato, come in (tantissimi) altri casi, anche salate sanzioni; sembra, però, che la rincorsa alla normativa UE in materia sia diventato oggi qualcosa di più (..) che un semplice atto dovuto, seppur di recepimento. Il fatto che ciò, almeno sulla carta, allarghi ancor più la voragine dei diritti di base fra dipendenti regolari e precari, è puramente incidentale ed anzi assume il ruolo di cartina di tornasole per ulteriori conferme delle discordanze intracomunitarie sul concetto di “precarious employment“..
Ciò che è davvero importante, invece, è che anche se tutto questo ambaradan dovesse concretizzarsi nella banale redazione di un “Documento di Valutazione del Rischio” (magari addomesticato..) saremo costretti, in un modo o nell’altro, ad accogliere una nuova prospettiva nell’osservazione della condizione lavorativa; una prospettiva sinora applicata (forse) soltanto da datori di lavoro e/o manager illuminati, capaci di togliersi di dosso il ruolo di sacerdoti di prassi, tradizioni (e pregiudizi – una sorta di “religio“..) per convertirsi ad una visione più laico-scientifica dell’Organizzazione. Dopo qualche anno a sentir parlare di “fattori psico-sociali“, di obbligo di farne delle rilevazioni (anche pro forma..) e di affidarsi a persone che abbiano almeno qualche competenza sull’argomento, se non una piena istituzionalizzazione ne avremo almeno una timida nozione, e forse qualche tentativo di adeguamento culturale..
..Ma vediamo in dettaglio la Circolare. La valutazione riguarda:
Eventi sentinella, quali, ad esempio: indici infortunistici; assenze per malattia; turnover; procedimenti e sanzioni; segnalazioni del medico competente; specifiche e frequenti lamentele formalizzate dai lavoratori. I predetti eventi sono da valutarsi in base a parametri omogenei individuati internamente all’azienda (es. andamento nel tempo degli indici infortunistici rilevati in azienda).
Da apprezzare, secondo me, questa prospettiva ricalcante palesemente il concetto di “segnali deboli” nella Manutenzione Predittiva: vi sono dei fenomeni, anche facilmente rilevabili dalle metriche, che singolarmante hanno magari poco senso (e scarso bisogno d’essere trattati) ma che, se raggiungono una data frequenza e/od una data intensità, depongono per la sussistenza di specifiche criticità, magari tendenti ad aggravarsi; analogamente alle vibrazioni in un auto che possono far pensare, ad un (accorto) guidatore, a qualcosa che “non va“.. Piccoli e grandi infortunii, ad esempio, possono far pensare d un aumento della soglia attentiva, tipica di situazioni di stress (cronico e non solo). Sia gli infortunii che le assenze per malattia, poi, possono essere dovuti a fattori ambientali (i.e. la Sick Building Syndrome) ma potrebbero essere ricondotti anche ad assenteismo di tipo strategico, cioè reattivo rispetto a una situazione di oppressione sul posto di lavoro, che può sfociare anche nell’ergofobia. E anche laddove l’assenteismo venga, più o meno consciamente, usato come forma di protesta il conflitto che di certo vi deve essere all’origine sicuramente non depone a favore di una buona produttività del lavoratore (e/o del gruppo di lavoro) quando presente. Infine, un tasso di turnover superiore ad una soglia identificata, caso per caso, come fisiologica, oltre a far pensare ad un diffuso stato di sofferenza in quel dato reparto, in quella data divisione aziendale e/od in tutta l’azienda, di certo ha come conseguenza diretta un impoverimento nelle competenze – che non hanno il tempo di formarsi o di essere tramandate – e pertanto un calo della qualità (se non anche della produttività). Insomma, se un datore di lavoro non ha la forma mentis di rilevare fenomeni come questi, ben venga una legge che quantomeno lo obblighi a sapere che esistono.
Fattori di contenuto del lavoro, quali ad esempio: ambiente di lavoro ed attrezzature; carichi e ritmi di lavoro; orario di lavoro e turni; corrispondenza fra le competenze dei lavoratori ed i requisiti professionali richiesti.
Roba da farci un’epigrafe tombale.. In tre righe si censurano migliaia di abusi che giornalmente vengono consumati da capi verso i sottoposti, entrambi forse ignari, sia che si tratta di abusi, sia che si tratta di abusi inizialmente produttivi ma che ben presto si rivelano nel loro effetto boomerang contro la produttività. Senza occuparci degli aspetti più materiali consideriamo già solo orari e carichi di lavoro: ci sono molte aziende che pur avendo sottoscritto un contratto di lavoro in base oraria (tutti) pretendono di inserire, in un’ora, una quantità variabile (sempre crescente) di carico di lavoro o, viceversa, di individuare una performance che può essere raggiunta entro, ma anche fuori, i limiti dell’orario di lavoro stabilito dal contratto stesso (o dalla legge). Una persona che veda lievitare il tasso di incombenze su ora od il cui orario effettivo di lavoro tenda a “dilatarsi fino ad occupare tutto il tempo disponibile” – che in un soggetto adulto, di norma, viene spartito fra diverse attività, non per forza sopprimibili – ad un certo punto, se non ha ancora raggiunto l’esaurimento psico/fisico, si rassegnerà a farsi male o comunque ad assentarsi indefinitamente dal lavoro.. ..e la durata della sua assenza sarà probabilmente proporzionale alla paura di tornare che avrà accumulato.. Come non citare, infine, il divario fra competenze possedute e quelle richieste, che può assumere due rapporti: quando le prime superano le seconde può scattare la frustrazione (elemento fondante dello stress) mentre quando sono le seconde a superare le prime, oltre al rischio di infortunio, può innescarsi la sovraeccitazione (altra componente dello stress) e/oppure l’avversione, la paura verso il dato compito, con le stesse conseguenze di cui sopra in fatto di assenteismo stretegico.
Fattori di contesto del lavoro, quali ad esempio: ruolo nell’ambito dell’organizzazione; autonomia decisionale e controllo; conflitti interpersonali al lavoro; evoluzione e sviluppo di carriera; comunicazione (es. incertezza in ordine alle prestazioni richieste).
Diversamente da quelle precedenti, per le quali potrebbe anche essere sufficiente l’analisi delle metriche dell’organizzazione, in questa parte della valutazione è necessario entrare davvero nel merito, benché nella disposizione venga chiarita la dimensione gruppale e non individuale della rilevazione. Per quanto riguarda molti degli aspetti citati, esistono una caterva di test – a me, nel tempo, ne sono stati somministrati un bel po’ – volti a determinare la sussistenza di conflitti interpersonali o l’autonomia di azione (che può essere conquistata, concessa ma anche imposta..); stessa cosa riguardo la qualità (rigorosamente percepita) della comunicazione, per la quale non è difficile rilevare l’eventuale output di stress quando essa è lacunosa od ancora peggio incoerente (con effetto “immobilizzante” del destinatario, che non sa più come comportarsi) nel tempo. Vale la pena, invece, soffermarsi sugli aspetti relativi a ruolo e carriera perché sanciscono – e questa è una vera rivoluzione – l’importanza dell’opportunità di auto-realizzazione come fattore della salute psichica individuale (e di gruppo). La negazione della quale, per esempio a causa di una “immutabilità del mansionamento” del lavoratore o per una non previsione di formazione, porta immancabilmente – specie in una forza lavoro maggiormente scolarizzata e pertanto forse anche maggiormente autocosciente – ad un deterioramento dei rapporti interni ed infine della produttività, dato che è altamente stressogena.
«Tutte belle parole» si potrebbe dire. Io stesso ho tentato di dare un taglio organizzativo alla disposizione in questione, spiegando quali fenomeni una sua piena applicazione potrebbe correggere, e questo a favore in primis delle aziende stesse – se solo fossero capaci di comprenderlo.. Tuttavia essa è un recepimento di una normativa comunitaria per la quale l’obiettivo principale non è l’evoluzione organizzativa né favorire la produttività ma la riduzione dei costi sociali associati, cioè quelli pagati da tutti come welfare previdenziale (per assenze per malattia e/o infortunio) e sanitario (per l’ormai innegabile relazione eziologica con disturbi cardio-circolatori e/o nervosi). In questa ottica migliorare l’ambiente lavorativo anche nei suoi risvolti psico-sociali assume il ruolo di un sensibile taglio di spese, la cui superfluità, una volta fatte proprie date nozioni (scientifiche), appare in tutto il suo splendore.
In conclusione, per quanto mi riguarda nella disposizione io ci vedo ampii margini per far ricondurre la “Telergofobia” (l’avversione nei confronti del Telelavoro) fra i tratti organizzativi non solo da rilevare ma anche e soprattutto da correggere..